domenica 25 gennaio 2009

Antonio Gramsci


“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

Antonio Gramsci - 11 febbraio 1917-

Vincenzo

martedì 20 gennaio 2009

Tolleranza e multietnicità

Devo commentare subito il precendente post di Vincenzo in quanto io stesso avevo venerdì visto una scena simile a quella da lui descritta dell gruppo di spalatori ma la percezione da me avuta è stata totalmente diversa.
Sarà il mio sentire negativo su Milano, sulla sua gente, a rendermi così meno ottimista di Vincenzo e vedere non certo quella multicularità solare inneggiata da lui e che anche io tanto apprezzo?

Certo anche nel mio palazzo è bello avere inquilini filippini, russi, brasiliani , per la maggior parte famiglie da tempo in italia già pienamente integrate, ma altrove vedo una multietnicità appena tollerata e non certo davvero integrata.
Non vedo i milanesi –a parte qualche eccezione- scambiare parole o sguardi positivi verso quei russi, cinesi, maghrebini ....piuttosto fastidio più o meno pronunciato e così fastidioso invece per me, e penso per chiunque invece consideri tutti prima di tutto come Uomini, senza distinzioni di reddito o razza, ancor di più per l’arroganza di quegli sgardi che vengono spesso proprio da coloro che sono stati in prima persona immigrati qui a milano venti o più anni fa con le grandi ondate di immigrazione dal sud.

Dicevo della scena vista Venerdì....sì i bellissimi volti del gruppo di spalatori , abbacchiati ma anche con una speciale luminosità negli occhi forse soprattutto per l’essere in gruppo ma la cosa triste era che mentre loro duramente cercavano di spezzare i lastroni di ghiaccio sui marciapiedi, l’unico “Bianco” della squadra comandava loro su cosa/come fare...anche le posizioni relative della squadra e del “capo” ricordavano quelle delle vecchie galere romane ...gli schiavi tutti in fila e al centro della strada il capoccia con la frusta.

E’ per questo solo che gli immigrati sono accettati da milano? Una nuova forma di degradazione?
Vorrei un sorriso in più quando li incontri per la strada, o al supermercato senti quel mescolarsi di idiomi, vedi i diversi modi di interagire, abiti, volti, colori

Chiudo come Vincenzo con la menzione un altro aspetto fondamentale che dovremo trattare è quello del Lavoro in generale...una divertente vignetta trovata mentre cercavo immagini di galere romane cogli schiavi a remi.


Giorgia



sabato 17 gennaio 2009

La mia città


Il post di Giorgia mi ha stuzzicato a scrivere qualcosa di bello su Milano, città che spesso critico per lo smog, il traffico a volte caotico, il clima rigido d'inverno e afoso d'estate, il comportamento spocchioso di alcuni suoi abitanti, il suo sindaco che pensa troppo all'Expo e poco ai problemi dei cittadini... città, Milano, dove sono nato e in cui vivo bene, malgrado tutto.

Mi piace molto girare per Milano: a piedi, in bici, coi mezzi pubblici (specialmente in tram) e in auto... e quando sono in giro mi piace osservare i luoghi e i comportamenti delle persone.

Voglio raccontare due belle scene che mi hanno colpito lunedì scorso mentre, in auto, da Bresso, dove c'è la mia palestra andavo ad un appuntamento in viale Ripamonti: dalla periferia nord a quella sud. Un bel giro.

La prima scena si è svolta in via Fara, zona piazza della Repubblica. 
La Moratti, dopo la sceneggiata (più napoletana che meneghina in verità) della chiamata dell'esercito a ripulire le strade dalla neve, si è decisa a chiamare degli spalatori. Il gruppo che ho visto all'opera era formato da tre magrebini e sette ragazzi dell'Africa nera... tutti molto giovani, ingiubbottati contro il freddo, armati di pale e picozze che usavano non proprio magistralmente e con un espressione del volto che tradiva spaesamento.... era come se si chiedessero cosa avessero fatto di male per essere stati costretti a lasciare i loro Paesi caldi per queste lande innevate.
La situazione mi ha fatto sorridere, un po' perchè sono tornato con la memoria alla grossa nevicata del 1985 dove con due amici andammo a fare gli spalatori (in proprio, non per il comune...) e un po' perchè mi piace vivere in una città multietnica.

Credo che ci siano pochi dubbi sul fatto che Milano sia la città italiana che più si avvicina a Londra e New York come modello di multiculturalità: a molte persone questo non piace, a me, invece, esalta. 
Mi piace vivere in un palazzo che ospita una famiglia filippina, una dello Sri Lanka e  dei giovani brasiliani. Mi piace scambiare con loro due chiacchiere, due idee, due sguardi.
Mi piace lavorare con colleghi stranieri, senegalesi perlopiù... mi piace sentire le loro storie, i loro sogni, le loro tradizioni... e mi piace spiegargli un po' l' Italia, il nostro modo di vivere, la nostra lingua.
Mi piace andare nei quartieri etnici: dai cinesi in Paolo Sarpi , coi loro negozi di cianfrusaglie e i loro ristoranti buoni ed economici; dagli etiopi ed eritrei in Porta Venezia, con gli uomini in gruppo nei bar e le donne (alcune alte e altere, altre basse e grosse tipo Mami di Via col Vento, ma tutte fasciate in vestiti tradizionali coloratissimi) che si dirigono a casa coi sacchi della spesa; dai magrebini sull'asse via Vitruvio-Stazione-via Ponte Seveso, coi negozi di Kebab che fanno anche la pizza, le macellerie islamiche che mi ricordano il dipinto "la Vucciria" di Guttuso e le donne velate e sensuali.

Milano, malgrado tutti i problemi di inserimento e di convivenza che inevitabilmente nascono in situazioni del genere, è riuscita ad accogliere nei decenni passati l'immigrazione dal sud Italia: Pugliesi, Calabresi, Campani, Siciliani (fra cui i miei genitori) hanno portato in città tradizioni, culture, usi che si sono amalgamati col tempo a quelle del luogo e hanno reso la città migliore.
Ancora oggi molti dei giovani più preparati e volenterosi del nostro sud vengono qui a lavorare ( e non solo dal sud, a volte) e vengono subito integrati.
E' quello che capiterà con gli staranieri. Probabilmente ci vorrà più tempo, ma senza dubbio avremo una città ancora più bella.

La seconda scena che mi ha colpito si è svolta all'incrocio tra via Vivaio e corso Monforte. Ero fermo al semaforo rosso e girando lo sguardo a sinistra ho scoperto una tintoria.
La cosa mi ha stupito, un po' perchè sono passato da lì migliaia di volte e non ci avevo mai fatto caso e un po' per la zona: in pieno centro, a pochi passi dalla Provincia e dalla Prefettura... anche questo mi piace della città: nasconde le sue doti.

Il negozio è piccolo, una sola vetrina, con gli abiti pronti appesi al soffitto e la postazione da stiro visibile dalla strada. La signora che stirava avrà avuto sessantacinque anni, capelli bianchi curati, molto sobria ed elegante, con al collo una bella e lunga collana blu che le scendeva sul maglione. Quello che mi ha colpito è stata la sua maestria nel lavoro: stava finendo di stirare una polo blu e rossa... un colpo di vapore sul fronte... l'ha girata sul retro... altro colpo di vapore... ha piegato il lato destro e la sua manica... ha piegato il lato sinistro e la sua manica... ha piegato in due la maglietta... colpo di vapore... ha sistamato il colletto... perfetto. Il tempo di un semaforo.

Credo che sul fatto che Milano sia una delle città più laboriose d'Italia ci siano pochi dubbi.
L'adagio molto meneghino "lavoro, guadagno, chiedo, pago, pretendo", fa si che il milanese sia molto critico sulla qualità dei servizi e dei prodotti a lui offerti e, di conseguenza, molto attento ai risultati del lavoro da lui svolto.
Dai lavori più umili a quelli più qualificati il milanese si impegna mediamente più che nel resto d'Italia. Questo, insieme ad altro, si capisce, ha fatto si che le migliori università, i migliori ospedali, le case di moda più celebri, l'industria editoriale e quella dello spettacolo, il più grosso centro fieristico e le squadre di calcio più rappresentative, solo per fare pochi esempi, siano di Milano.

Il lavoro: quello che spinge le persone a venire a Milano e quello che rende la città così viva.

Forse sarebbe il caso di ricordare più spesso il primo articolo della nostra Costituzione... ma questo è un altro post... 


Vincenzo    

venerdì 9 gennaio 2009

Spigolature milanesi

Questo mio primo post del 2009 sarà dedicato alla città in cui ora abito...città che pure non amo e che non sentirò mai mia a differenza della mia natia Bologna o delle tante città del mondo -Roma, Parigi, Venezia - solo per citare le prime- che adoro e che pur se solo vissute da turista mi fanno sentire “a casa”.

Due spigolature sentite in Tv durante queste vacanze di Natale hanno infatti colpito la mia curiosità...

Una Notizia: Abbado che si dice pronto a tornare alla Scala per un pagamento in natura...letteralmente in Natura: 90000 alberi che il Comune di Milano dovrebbe piantare. Splendida richiesta, non trovate?

E un Aneddoto:

A partire dal 1385 cominciarono a giungere a Milano artisti, architetti,artigiani, muratori, pittori, vetrai. Per dare il loro contributo alla“Fabbrica del Duomo”; un immenso cantiere che rimase aperto per decenni, fino ad esitare in quell’incredibile testimonianza del gotico fiammeggiante che sembra uscita dall’estasi di un mistico.Tra i convenuti c’era un fiammingo di Lovanio, tal Valerio Perfundavalle, di professione pittore di vetrate. Per conferire ai suoi gialli un tocco di brillantezza in più, Perfundavallle impiegava lo zafferano. A Milano si lavorava sodo fin d’allora, e la pausa per il pranzo era piuttosto breve. Il nostro pittore pertanto si riduceva a mangiare un po’ di riso dalla “schiscetta”, sul suo ponteggio sospeso tra terra e cielo. Com’è e come non è, un bel giorno, causa un movimento maldestro, un po’ dello zafferano che serviva per le vetrate finì nel riso. La leggenda sorvola sulle reazioni del nostro eroe (avrà forse sacramentato in fiammingo, a bassa voce dato il luogo). Però….il riso colorato di giallo pareva proprio appetitoso. E il sapore? Perfundavalle esitò un istante. Poi si disse: che male può farmi...Così l’assaggiò. Gli piacque molto. Da quel giorno le sue vetrate furono un po’ meno gialle, e il suo riso lo fu di più. La voce, com’è ovvio,si sparse. E lo zafferano passò in cucina. Come dire: dal croco al cuoco.Questa storia è sicuramente falsa, dalla prima all’ultima paro
la. Ma è suggestiva, perché mette insieme i due must di Milano: il Duomo, e il risotto alla milanese. Facendoli nascere nello stesso luogo, l’uno dall’altro. Le scatole cinesi non hanno fine: da tutto questo scaturisce – secondo un’altra leggenda – anche il nome“risotto”. Un umanista, assaggiando questo singolare riso giallo, pare abbia esclamato: “Risus optimus!”

Cosa scegliere come immagine per questo post così dominato dal giallo? Mmmh vediamo...non l’isolata assolutezza di colore del famosissimo giallo, brandello di muro della “Veduta di Delft” di Vermeer, nè quadri al giallo dedicati come il “Cristo giallo” di Gaugin o “La casa Gialla” di Van Gogh, ma due quadri che amo in cui i toni del giallo, colore del sole per eccellenza prendono significato preponderante nel mischiarsi invece con il buio, nel contrasto luce/buio o nel gioco di pigmenti in cui il tono diventa un indefinibile mix...Rembrandt e Goya ...due quadri che parlano ..immagini di solitudini... l’isolamento del vecchio filosofo e la desolazione panica di un cane perso nella tempesta.


Giorgia



martedì 6 gennaio 2009

Il post della Befana


Ieri un' amica mi faceva vedere delle sue cicatrici: piccoli segni lasciati da cocci di vetro innavvertitamente toccati da bambina; tracce un po' più grosse dovute ad un' operazione chirurgica; piccole macchie lasciate sulle mani dall'acido del "piccolo chimico"; un bel segno dritto sul braccio, lasciato da un colpo di  fucile caricato a sale da un contadino stanco che dei ragazzini gli rubassero la frutta sotto casa...

Mentre mi mostrava questi segni, mi raccontava frammenti di vita e mi ha fatto tornare in mente una frase che una persona cara mi disse qualche tempo fa: "le cicatrici restano, ma il dolore passa". Le cicatrici nell'anima, si capisce.

Bel promemoria, le cicatrici... da non ostentare, ma da non nascondere. Da non pensare spesso, ma da non dimenticare.

Saluti dalla Befana e buon 2009, Vincenzo